Siamo tutti Copywriter

Siamo tutti Copywriter

Quando nel 2004 fece la sua apparizione il neologismo Brand journalism, coniato dall’allora Chief Marketing Officer di Mc Donald’s, Larry Light, ricordo che il mondo del giornalismo italiano sollevò scudi sdegnati perché la purezza e la verginità del mestiere non potevano (non dovevano!) essere intaccate dalle scorie corrosive della pubblicità. Io ero tra questi santificatori del giornalismo: sdegnato al punto giusto, quasi schifato nel vedere che, dopo molteplici tentativi di invasione di campo, l’advertising, alla fine, era riuscito a colonizzare il mondo dell’informazione di massa. Nel 2004 avevo 28 anni, da 10 già praticavo il mestiere, e all’epoca ero caposervizio di un’agenzia giornalistica di comunicazione.

Sei tu il copy?

Le cose cambiarono. Ma, come sempre, i processi radicali hanno bisogno di tempo per sedimentare, instillare scintille, favorire i ragionamenti e la filosofia, creare nuove opportunità e mettere radici. Qualche anno dopo, siamo nel 2009, mi capitò di affrontare la mia prima campagna elettorale per un candidato alle elezioni di Sindaco di un piccolo Paese sul Lago Maggiore. Curai, assieme ad altri colleghi, tutti gli aspetti della campagna (che non prevedeva un budget mostruoso): affissioni, brochure, “santini” (quei piccoli cartoncini dove si trova stampato “vota per Pinco Pallo” sotto la facciona, solitamente a mezzo busto, del candidato e al simbolo del partito politico), sito internet, conferenze stampa, comunicati stampa, media & public relation, spot per le reti televisive e le radio locali. Mancavano solamente i social network, ma nel 2009 Facebook era da poco meno di un anno presente in Italia, Instagram non esisteva e Youtube era disponibile solo da due anni in italiano ed era considerato una “roba da smanettoni”. In quei giorni, per la prima volta nella mia vita, sentii rivolgermi la parola “copywriter”. Una ragazza che faceva parte dello staff e che si occupava di grafica venne da me e mi disse: «Dunque, allora il copy sei tu?». Lì per lì non ci feci caso: risposi che sì, sarei stato io a creare tutti gli slogan (claim) e le descrizioni (body) che servivano e che io e lei avremmo dovuto elaborare insieme tutto il materiale che poi sarebbe stato distribuito nelle cassette delle lettere dei cittadini. Io, giornalista, che venivo chiamato copy!

Il titolo è la vetrina, è la réclame, non l’interno del negozio.
Gian Luigi Beccaria

Una “storiella” come tante, capitata sicuramente ai più, importante per inquadrare il discorso per giungere al cuore del tema che, ne sono certo, farà accapponare la pelle a molti: credo che, oggi, tutti gli operatori della comunicazione che lavorano utilizzando le parole debbano essere considerati “copywriter”. Anche le accezioni dei dizionari dovrebbero essere riviste in chiave contemporanea. La parola copywriter non piace nemmeno a me, ma, a conti fatti e grazie al dinamismo dei significanti e alla duttilità della lingua, penso che una discussione seria, aperta, sincera, intellettualmente onesta sul tema debba essere, meglio prima che poi, affrontata. Soprattutto dai giornalisti che, nobilitati da due secoli di “purezza”, non accennano a volersi accasare là dove, fino ad oggi, hanno sempre dimostrato (dimostrato, sia inteso, non provato) di stare alla larga: l’adevertising. O, ancora più in profondità, il marketing.